Dopo anni di valigie parcheggiate in garage – complice la vita che a volte ti mette davanti scelte obbligate tra bilanci stretti e accudimento di un genitore – finalmente posso ripartire. E non parlo solo di destinazioni geografiche, ma di quella ripartenza più profonda che ti fa chiedere: “Adesso che posso, COME voglio viaggiare?”
Perché sì, il dove è importante, ma il come lo è ancora di più.
Il viaggio che voglio (e forse vuoi anche tu)
Mi sono fatta questa domanda guardando le foto patinate sui social, i tour operator che ti promettono “15 città in 10 giorni”, le folle che si accalcano per lo stesso scatto identico davanti allo stesso monumento. E ho capito che il mio viaggiare ideale ha caratteristiche precise:
- destinazioni scelte con il cuore: non perché “ci vanno tutti” o perché sono di moda, ma perché quel posto mi chiama, mi incuriosisce, mi promette qualcosa che non so ancora di cercare.
- piccoli rifugi invece di catene alberghiere anonime: B&B dove la colazione la prepara la proprietaria che ti racconta la storia del paese, guest house dove incontri altri viaggiatori veri, alberghi a conduzione familiare dove ti chiamano per nome dal secondo giorno… luoghi con un’atmosfera, accoglienti, caratteristici.
- un gruppo raccolto di anime affini: poche persone con cui condividere l’esperienza del viaggio senza che diventi un tour de force organizzativo. Abbastanza intimità da permettere conversazioni vere, quelle che nascono spontanee davanti a un tramonto o un piatto locale.
- il ritmo lento di chi vuole assaporare, non ingurgitare: tempo per sedersi in una piazza e guardare la vita scorrere. Spazio per riflettere su quello che stai vivendo invece di correre alla prossima attrazione.
E tu? Quando immagini il tuo viaggio ideale, cosa vedi? Una maratona di selfie e check-in o qualcosa di diverso?
L’ansia da rientro: quando tornare fa paura
Ecco una cosa che ho notato nel mio ultimo weekend fuori (eravamo nove donne, energia bellissima, gruppo affiatato): già il penultimo giorno è partito il coro lamentoso della tragedia imminente.
“Domani si parte, non ci voglio pensare.”
“Che barba tornare a casa.”
“Non voglio partire. Beh, sono contenta di rivedere mia figlia, per il resto bleah…”
Il sottotesto era cristallino: rientro = frustrazione + stress + voglia di sparire di nuovo.
E qui mi sono fermata a riflettere. Se parti per fuggire dalla tua vita quotidiana invece che per vivere un’esperienza nuova, forse il problema non è il viaggio. È a casa.
Perché diciamocelo chiaramente: se la tua vita “normale” fa talmente schifo che l’unica cosa che ti tiene in piedi è pensare alla prossima fuga, non è il viaggio che ti serve. È un cambio di rotta nella quotidianità.
La trappola della parentesi
Il viaggio (che duri un weekend o un mese), infatti, è sempre una parentesi. Una bellissima, necessaria, rigenerante parentesi, ma pur sempre una parentesi. È sulla vita di tutti i giorni che serve agire, fare quei piccoli o grandi aggiustamenti che la rendono vivibile, piacevole, tua.
Perché solo quando la tua quotidianità non è una gabbia da cui scappare, il viaggio diventa quello che dovrebbe essere: un’aggiunta di bellezza, non una compensazione dell’infelicità. Solo allora sarà bello partire e sarà bello anche tornare.
Gli studi sul benessere ci dicono che la felicità non sta nelle grandi occasioni straordinarie, ma nella qualità del quotidiano. Il ricercatore Dan Gilbert, nel suo lavoro sull’affective forecasting, ha dimostrato che tendiamo a sopravvalutare l’impatto degli eventi positivi eccezionali sulla nostra felicità a lungo termine. In pratica: quel viaggio da sogno ti darà un boost momentaneo, ma se torni a una vita che ti pesa, l’effetto svanisce in fretta (e te ne avevo già parlato anche qui).
Altrove posso essere chi voglio: la magia dell’anonimato
C’è però un altro aspetto del viaggiare che mi affascina profondamente: la libertà di essere chi vogliamo quando siamo lontani da tutto.
Pensa: nessuno ti conosce. Nessuno ha aspettative su di te. Non devi interpretare ruoli, soddisfare doveri, corrispondere all’immagine che gli altri si sono fatti di te. L’anonimato ti avvolge come una coperta morbida in cui rannicchiarti per scoprire parti di te che di solito tieni ben nascoste.
Quella conversazione profonda con uno sconosciuto che non rivedrai mai più. Quel lato giocoso e spontaneo che emerge quando non temi il giudizio. Quell’audacia nel provare cose nuove perché tanto “qui nessuno mi conosce”. La versione di te più autentica, o forse semplicemente diversa, che trova finalmente spazio per esistere.
La psicologia sociale ci parla di “liberazione della situazione” quando cambiamo contesto, ci liberiamo dai vincoli delle nostre identità abituali e possiamo sperimentare nuovi modi di essere. È come se il viaggio ci desse il permesso di esplorare stanze della nostra casa interiore che di solito teniamo chiuse.
Chi posso essere fuori dalla solita realtà?
Quali aspetti di me che normalmente soffoco possono finalmente respirare?
E come posso continuare a farli vivere anche al mio rientro?
Sono domande imponenti, di quelle che ti danno una bella scrollata ma che è importante farti, non credi? Giusto per non viaggiare in modalità automatica, solamente scattando foto e mettendo like.
Trasformare il viaggio in crescita
Ed è proprio per questo, per non lasciare che il viaggio resti una serie di storie su Instagram e un ricordo che sbiadisce settimana dopo settimana, che ho creato Altrove, mi trovo.
Non è un semplice quaderno di viaggio dove annotare orari e monumenti visitati. È uno spazio di riflessione progettato per trasformare ogni destinazione in un’esperienza di scoperta interiore. Per fare le domande giuste al momento giusto. Per catturare non solo cosa hai visto, ma chi sei stato mentre lo vedevi.
Perché il viaggio può essere un’occasione potentissima non solo per vedere posti nuovi, ma per ritrovarti o incontrare versioni di te che non sapevi esistessero. Ma questo non accade per caso: accade quando ti fermi, osservi, ti poni domande, traduci in parole quello che senti.
La ricerca sulla scrittura riflessiva (penso agli studi di James Pennebaker) dimostra che scrivere delle nostre esperienze non solo ci aiuta a processarle meglio, ma aumenta la consapevolezza di sé e il benessere psicologico. Trasformare il viaggio in una narrazione consapevole significa portare a casa non solo souvenir, ma crescita vera. E significa anche vivere il viaggio due volte: mentre sei in giro e dopo, ogni volta che avrai voglia di aprire il tuo diario e rileggerlo.
E tu, come vuoi viaggiare? Vuoi continuare a collezionare luoghi da cancellare sulla lista o vuoi che ogni partenza sia anche un passo verso una versione più autentica e viva di te? La differenza, credimi, non sta nella destinazione. Sta nel modo in cui scegli di attraversarla.



